Daniela Pericone su Un buon uso della vita

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da Laboratori Poesia

 
 

Un buon uso della vita è il libro di poesie di Gabriella Musetti che segue La manutenzione dei sentimenti (2015), entrambi pubblicati con Samuele Editore. I titoli di queste ultime raccolte rimandano non soltanto a una comune area semantica, ma anche a un preciso orientamento etico. Nel nuovo libro (dal sottotitolo immagini fuori sesto, con la prefazione di Chiara Zamboni e una cartolina d’artista di Donatella Franchi) il motivo dirimente è subito dichiarato – un buon uso della vita è tema ribadito nella poesia di apertura – con un’espressione piana, diretta, inequivocabile rispetto alla prima istanza che punge la mente del poeta, e di ogni essere umano, ossia cosa fare della propria vita: «un buon uso della vita / e la nostra autobiografia / di tutti / – dice Maria Pia – / diventi un viaggio / meno accidentale / non raro non avaro / e strisci dentro / luoghi contenenti sale». Una volta catapultati in questa strana cosa che chiamiamo realtà, ci interroghiamo sul senso e sulla direzione da dare alla nostra esistenza. Ma la soluzione è tutt’altro che semplice: se uguali per tutti sono le premesse, differenti per ognuno sono gli atti consequenziali. In combinazione con i caratteri individuali, i fattori più eterogenei influiscono sul corso degli eventi e ne condizionano svolgimento ed epilogo: «non c’è una regola prescritta / uguale a tutti / ognuno trova a caso la sua stanza / chi bene – felice lui o lei – chi / con dolore» (le storie sono all’inizio).

Dopo versi che abbracciano in un respiro filosofico il bene e il sale della condizione umana, il libro prende una piega inattesa, adotta un punto di vista singolare. Si snoda una prima sequenza di poesie dall’incipit ricorrente, replicato con minime varianti, in cui prevale il sintagma lei era morta, variamente adattato alle storie raccontate. Ogni quadro percorre, più evocando che descrivendo, la vita di una donna a partire dalla sua fine, compila una sorta di resoconto a ritroso per risalire alla causa, o al caso, che l’ha condotta alla morte. E ogni morte si verifica sempre come un evento improvviso, inaspettato, dirompente anche quando in obliquo dai fatti si sarebbe potuto intuire il finale: «è morta questa mattina è morta / ma non si è accorta di morire / rideva come una bambina», oppure «era morta con la luna storta / era morta sopra un cuscino estraneo / di un vicino fuori della sua casa», e ancora «lei (invece) era morta di notte / tra le botte della sera e quelle del mattino» (è morta questa mattina è morta, era morta con la luna storta, lei (invece) era morta di notte). La lettura di questa teoria di versi impone un suo ritmo e scorre senza pause, come a non voler interrompere il filo di una storia in cui siamo tutti implicati. Si prova una sorta di curiosità mista a sgomento, da un lato lo stupore di ritrovare dettagli che combaciano con il proprio vissuto o la propria esperienza delle vite altrui, dall’altro la percezione viva e dolorosa che ogni esistenza, in misura maggiore o minore, tradisce le sue stesse premesse, disattende le aspettative.

L’idea della circolarità del vivere e morire sottesa all’intero poema si esplicita in una citazione di María Zambrano, che fa da cesura e al contempo da legame tra la prima e la seconda parte del libro: «Essa [la vita] ritorna nella cavità della grotta iniziale protetta dalla luce e da qualsiasi elemento che non sia lei, torna alla terra, alla terra come tale, al viscere terrestre».

 

Daniela Pericone

 
 
 
 

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