Alessandro Canzian su “Il dolore”

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Il dolore di Alberto Toni è uno straordinario libro di poesia (l’immagine di copertina è di Alessia Trentin) denso di riferimenti che vanno da Ungaretti (non a caso il titolo) a Carducci passando per i dichiarati Anna Maria Ortese, Simone Weil, Abraham Yehoshua. Un libro che già visto da lontano insegna una cosa: il dolore è complesso. Anche utilizzando la parola sublimata, tale è la parola poetica, non bastano due versi o due poesie per riuscire a definirlo. Il dolore è una realtà che si sposta sempre un po’ più in là, irraggiungibile ma tangibile.

Alberto Toni nelle pagine de Il dolore raggiunge uno degli apici suoi massimi. Rispetto al suo precedente edito con Nomos Edizioni (Vivo così) acquisisce un verso più controllato e ritmato che spesso segue la linea grafica del dolore stesso, o di uno dei tanti dolori possibili. Perché Toni suggerisce subito che c’è un movimento che al contempo unisce e differenzia questa realtà quasi trascendente, distinguendo un dolore privato e personale da un dolore più collettivo che intride il mondo, a volte in qualche modo lo giustifica. E Toni si dimostra un grande poeta nel momento in cui riesce a mettere in relazione il personale con il collettivo attraverso una relazione di apertura. E questa apertura è fondamentalmente la parola, la sua potenzialità.

Alcuni mesi fa è uscito un interessante autoritratto dell’autore curato da Fabrizio Fantoni per il blog di poesia della Rai di Luigia Sorrentino (qui), e Toni afferma: “Se la poesia è un dono, io questo dono l’ho avuto da mia madre, che da giovane a Firenze frequentava la casa di Alberto Viviani e una volta, mi raccontava, era stata anche a casa di Papini. Qui nel mio studio ho i libri di Viviani, con dedica “alla cara Romana Viola”. Un tramandarsi genetico, dunque, come qualcosa che viene da lontano e poi prende forma. Questo è stato: un respiro”. Una madre che ne Il dolore diventa soggetto privilegiato di inizio e partenza del discorso poetico, una condizione senza la quale non esisterebbe nemmeno l’osservazione del dolore umano nel suo senso più ampio.

Arrivò una malattia seria, un dolore che fece da spartiacque tra un prima e un dopo. Arrivò una seconda vita, e c’era la poesia a raccontarla. Era una poesia più esperta. Nel 1987 uscirono venti poesie con il titolo La chiara immagine (Rossi & Spera). Presentai il libro in via dei Coronari. Poco prima c’era stato un incontro con Amelia Rosselli e Gregory Corso. Anche qui l’immagine dei due poeti che accennano un ballo. Un Ballo di famiglia si potrebbe dire a questo punto, anche se la nostra non era una vita minimalista”. Continua Toni nell’autoritratto a tutti gli effetti portando le origini de Il dolore veramente indietro nel tempo nella considerazione che l’autore ha maturato nei suoi confronti: “un dolore che fece da spartiacque tra un prima e un dopo. Arrivò una seconda vita, e c’era la poesia a raccontarla”.

Per arrivare infine a dire: “Mi piace pensare alla mia poesia come a un neoumanesimo risolto nella precisione del dire che vuole farsi segno distintivo. Ecco, la poesia per me è segno distintivo, emblema di lingua e presenza. E in fondo quello che ci emoziona in una poesia è riconoscerne l’emblema, il suono che ci resta dentro e continua a parlarci, non smette di parlarci anche quando ci sembra di non ricordare. Ho imparato con gli anni a farmi più preciso, a capire quello che voglio o posso dire, anche quello che non voglio o non posso. È il mio registro, che poi è tutto perché è il discorso esplicito e reticente al contempo, la frase che si allunga o che si inerpica e sale, su su, e richiama uno specialissimo significato (molti, a dire il vero). Alla fine il risultato è uno spartito semiaperto”. Dove “il mio registro” diventa non un esercizio di stile ma una vera e propria relazione con la complessità del mondo attraverso il filtro privilegiato del dolore.

Perché il dolore è necessariamente un filtro privilegiato nel momento in cui acquisisce un suo ritmo allargato, in qualche modo esplicativo, che dal poeta riesce a emergere segno (mi viene in mente Cattafi) universale nel senso di tangente l’altro. Ed è lo stesso Toni in chiusura del libro a dircelo: “Il dolore si sposta, è sponda / anche dell’altro quando parla / e trascina un pensiero fisso, / che è solo amore, non altro / quando nell’aria la sentiamo / arrivare”.

 
 
 
 
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