TUTTO IL BENE CHE CI RESTA

  • Tempo di lettura:6 minuti di lettura

copertinapapa

 


 
 

TUTTO IL BENE CHE CI RESTA

poesie al papà

Roberto Cescon, Alessandro Canzian, Arnold de Vos,

Alberto Trentin, Rossella Luongo, Sergio Serraiotto, Andrea Roselletti, Guido Cupani

– con sei poesie di Franco Buffoni

prefazioni di Roberto Vecchioni e Francesco Tomada

 
 

Amato o contestato,  presente o assente, eroe o piccolo uomo. Ognuno di noi prima o poi ha dovuto fare i conti con il proprio padre. Io non saprei parlare della paternità come idea astratta. Sarebbe troppo complicato. Ma posso parlare del padre. Del mio, che ho amato tantissimo. Si chiamava Aldo. A volte non l’ho capito, a volte non mi ha capito, a volte ci siamo trovati e a volte non ci siamo neppure cercati. Un po’ come tutti, del resto, nel rapporto genitore-figlio. Tuttavia, più rileggo la mia vita, le mie passioni e i miei sentimenti, e più  ritrovo i granelli di fantasia, di poesia, di sapori che lui ha seminato dentro di me. Aldo era un meraviglioso anarchico, nel senso meno politico del termine, cioè era un uomo di fantasia, di slanci, di stelle e di abissi. Amava tutto ciò che gli piaceva, quindi mia madre, quindi il sottoscritto e Sergio, mio fratello. La famiglia era il suo regno immenso e sempre difendibile. Ma ha anche amato allo stesso modo il gioco, i cavalli, la bellezza delle donne, la fantasia, gli estremi, Napoli e Milano, il lavoro e l’indolenza. Io l’ho ritrovato dentro le mie canzoni sempre e quasi senza volerlo scrivere, come se quello fosse il posto che lui stesso si era scelto accanto a me.

(dalla prefazione di Roberto Vecchioni)

 
 

è una parte che richiede una preparazione meticolosa, ma alla quale non si è mai pronti: alcuni lo sentono nel proprio DNA, per altri invece è realmente una scelta o una volontà. Per tutti, per quelli che hanno trovato figure di riferimento solide come per quelli che invece non hanno avuto questa fortuna, il percorso è quello di imparare la propria paternità contemporaneamente ai figli che imparano il proprio “essere figli”. Si cresce insieme, si cambia insieme, ci si aggiusta strada facendo. E scoprendo qualcosa che è difficile da mettere in preventivo: che i figli sanno leggere nel non-detto come nessun altro al mondo. Una cosa sono gli atteggiamenti, le strategie educative, la pazienza e la perseveranza nel ricoprire il proprio ruolo, ma un’altra è ciò che siamo, ciò che trasmettiamo. Non è certo una colpa, ma i figli sono spietati nell’apprendere e nel restituire le contraddizioni che portiamo dentro, proprio quelle che di fronte a loro cerchiamo di tenere nascoste. Sono la nostra realizzazione, se con ciò intendiamo “rendere reale”, tradurre in vita, cioè in un altro uomo o un’altra donna, ciò che in noi rimane sospeso e a volte insoluto. Se pensiamo a questo, la paternità racchiude in sé un’assunzione di responsabilità e contemporaneamente l’irrazionalità di un tuffo nel vuoto. Ma forse è meglio immaginarla come un atto di fiducia assoluta: credo in te, figlio/a che cresci, credo in me, padre che mi scopro tale nel tuo crescere; so che non sarai necessariamente quello che desideravo, ma credo di poter diventare io quello di cui hai bisogno, e una parte di me, fatta tua, sarà ciò che tu porterai agli altri domani.

(dalla prefazione di Francesco Tomada)

 
 
 
 

Ai padri
poesie di Franco Buffoni

 
 
 
 
Al padre
 
Il sogno di lasciarti stremato
troppo stremato per urlare ancora.
 
 
 
 
 
 
Nelle vacanze per tenermi occupato
 
Nelle vacanze per tenermi occupato
– non esisteva che leggessi tutto il giorno –
mio padre mi mandava in magazzino
a aiutare il Giovanni.
Se c’era un lavandino da spostare
però ci pensava il Giovanni
o le vasche da scaricare,
io spostavo i rubinetti
e neanche sempre.
C’era dentro l’odore di cartone
e paglia umida,
carezzavo le gabbie degli scaldabagni
il legno ruvido.
E il Giovanni che ansimava lo guardavo.
 
 
 
 
 
 
Di quando l’età si conta a mesi
 
Di quando l’età si conta a mesi
sul retro di piccole foto
o in calce alle radiografie:
a world of all to penelopize
Per uomo nato due volte a perdere
le forme da ragazzo,
digiuni e penitenze
schiavi da battere e impiccare
terapie di confessioni
e varie opere minori della morte.
Il Signore aveva il volto medico
il volto di mio padre.
 
 
 
 
 
 
Il sentiero scendeva sulla fronte di Armio
 
Il sentiero scendeva sulla fronte di Armio,
lago d’inverno stropicciato solo.
Se ne andava con profondi squarci
nel ritratto d’acqua dell’acqua che indossava
e il suo cavallo sollevava onde di polvere
nello sguardo semplice del cielo.
 
I pini salivano nel buio
– ripeteva a nascondersi
       tra stelle decenti
       coi soli sorrisi –
 
E adesso erano proprio tutti uguali.
 
 
 
 
 
 
Di quando la giornata è un po’ stanca
 
Di quando la giornata è un po’ stanca
e cominciano le nuvole a tardare
invece del nero all’alba che promette
costruzione di barche a Castelletto con dei legni
morbidi alla vista, già piegati.
Non con la ragione ma con quella
che in termini di religione militante
è la testimonianza
ti dico: tornerai a San Siro,
sotto vetro la cravatta a strisce nere
sul triangolo bianco del colletto
come nella fotografia del cimitero.
 
 
 
 
 
 
L’odore di mio padre
 
Cercavo i documenti della casa
un antico rogito con mappa,
in una borsa chiusa da trent’anni
c’era il suo odore
in divisa da ufficiale,
saltava fuori fresco
mi copriva
di amore singolare.