Paolo Lagazzi su Haiku italiani

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da La Gazzetta di Parma del 24 marzo 2016

 

su Haiku Italiani
di Luigi Oldani

 

Samuele Editore 2016, collana Scilla, prefazione di Alba Donati

 
 

Da molti anni ormai parecchi poeti, o sedicenti tali, si esercitano in Occidente a rifare quei componimenti giapponesi di soli tre versi che si chiamano haiku. Nella folla di questi sperimentatori non è facile individuare autori capaci di evitare i rischi del manierismo, le immagini stereotipe o le movenze forzate della brevità, mentre rarissimi sono coloro che si potrebbero definire maestri di questo genere lirico. Credo che Luigi Oldani, un poeta del quale non so nulla ma di cui mi è capitato di sfogliare una smilza raccolta di “Haiku italiani”, sia davvero un piccolo maestro. Da cosa sono illuminati i suoi testi? forse dal suo essere, come ci informa il risvolto della plaquette, un praticante del buddismo zen? o da qualcosa che non si può definire, qualcosa di tanto misterioso quanto nutriente e liberatorio per chi legge?

Da un lato i suoi versi brillano per quel nitore che nasce solo dalla vera attenzione. Un po’ come Masaoka Shiki (uno dei più grandi autori di haiku) Oldani sa registrare al volo le apparenze del mondo nei loro movimenti e contrappunti fugaci e meravigliosi: ad esempio sa mostrarci l’incontro-scontro fra il candore della neve, la tinta scura di un treno in corsa e la luce del tramonto (“Nevica ancora / il treno passa scuro / cade il tramonto”) o sa evocare un albero “bagnato” (ricordo di una celebre poesia di Attilio Bertolucci, “Torrente”?) in controcanto al chiarore dell’alba (“Calmo ammiro / un ciliegio bagnato / macchiare l’alba”). Da un altro lato, però, il nitore si stempera, si ammorbidisce e scioglie aprendosi a tutto ciò che sfugge ai tocchi icastici del pennello. Osserva assai bene, a questo proposito, Alba Donati nell’elegante introduzione che dietro le parole di Oldani “c’è un vuoto che risplende”. Questo vuoto non è solo quello stacco sintattico (il “kireji”) che, tagliando negli haiku il flusso del discorso, crea un cortocircuito logico o una vertigine semantica: è, ci dice la Donati, una specie di verso in più, un verso trasparente con cui l’autore “rigira il tutto, inverte la direzione, immette cose non viste, non vedibili”. Grazie a questa forza segreta il breve spazio dei testi si dilata di continuo: chi scrive si riconosce altro da sé quando la sua gatta lo osserva (“Mi guarda Ada / s’apre il suo mondo / divento gatto”), intuisce nella neve che fiocca il pensiero di un artista (“Nevica oggi / una mente bianca / copre giardini”) o sa cogliere una sostanza eterna persino nelle forme più fragili (“Di ogni fiore / ogni petalo esiste / per tutto il tempo”). Di fronte al mistero per cui la realtà è se stessa e insieme infinitamente di più, non occorre tentare di comprendere: “Leggo a letto / dolce è non capire / l’alba d’autunno”. Tutto quanto dobbiamo fare è abbandonarci a quella fede nella vita che ci rinfresca e rinnova come un vento in transito nel nostro cuore: “Come la fede / attraversa il cuore: / passa il vento”.

​Paolo Lagazzi