Michele Paoletti su Schianti a sconfine

  • Tempo di lettura:3 minuti di lettura


 
 

Il percorso intrapreso da Mara Donat nella raccolta Schianti a sconfine (Samuele Editore, 2016) inizia con la messa in discussione del corpo (Dimmi, cos’è il corpo?, chiede in apertura della lirica SMOTTAMENTO) nell’intento di trovare una parola che si faccia essa stessa corpo, linguaggio di carne da offrire all’altro. Nella prima sezione intitolata Schianti, si trovano numerosi riferimenti all’acqua, quasi Donat, fosse alla ricerca di una fonte primitiva di vita, un’onda/un costante mutamento dalla quale poter partire alla ricerca di una terraferma dove ricostituirsi, tema che ritornerà anche più avanti (Noi ci lasciamo dietro il mare/per farci ossa e sangue, sulla terra,/come un prato verde.). È nsistente anche il dialogo nei confronti di un tu la cui assenza è addirittura motivo di non esistenza (non ci sei, quindi non esisti,/come una nuvola/ che manca al cielo, bianca), ma di cui l’autrice cerca costantemente la materialità del corpo, un corpo-onda che si offre e si ritrae, (prendo il tuo corpo e/me lo strapazzo, lo sperma/negli obuli…), barattando silenzio con silenzio/rettile, secco e secante/come le tue pupille.

Nella sezione centrale Mara Donat invoca figure mitiche della Grecia antica (Egeria, Vestale, Venus e Calliope), chiedendo loro di porgerle sillabe incantate, di riempirle la bocca di parole. In queste quattro poesie si assiste quasi ad un rito di fertilità della parola affinché sgorghi dall’acqua, sbocci dalla terra e contrasti il disincanto.

Le ultime poesie, raggruppate nella sezione A sconfine, rappresentano il raggiungimento della consapevolezza: il disincanto lascia spazio allo smarrimento, il corpo si sperde, si frantuma.

Lasciare che il corpo si smarrisca ci consente, tuttavia, di entrare in contatto con qualcosa di più profondo e spaventoso nella sua totalità, una forma di libertà incarnata nell’immagine dell’uccello migratore che non appartiene a nulla, ma appartiene al mondo (Esule come Stella d’Oriente/ogni luogo del mondo mi è/dimora), in continua transizione, come riporta l’autrice nella sua nota, da “un luogo-non luogo anche poetico, nella ricerca di un dire più radicato” e dunque più autentico.