Juan Arabia, Il nemico dei Thirties, Samuele editore, 2017 (traduzione di Antonio Nazzaro).
Develarle. Rivelare.
Così si apre il libro di Juan Arabia. Con una poesia che fa da quadro a un testo costruito tutto sul senso di rivelazione, visione (intesa come manifestazione di senso): “Rivelare all’uomo che quello da cui scappa/non si trova nel suo cammino.”
La rivelazione non ha bisogno di spiegazioni: “la spiegazione è una bassezza/il chiarimento l’umiliazione”.
Il poeta vive di rivelazioni e per questo non ha timore della verità. O delle verità.
La verità della disillusione e dell’estraneità: “perché ancora viaggio/ sono un estraneo/ e nella città i ponti/ ammutoliscono e mi feriscono.”
La poesia di Juan Arabia è un attraversamento della vita, fare della tradizione la malinconica presa di coscienza di una possibile rivoluzione. A tratti mancata. A tratti chiusa in se stessa. A tratti realizzata in una poesia che sa di terra, polvere, cammino negli occhi degli altri.
Allora l’esilio, il destrierro, è nella memoria, è memoria dell’esilio, che vive nel presente perché interiorizzato. Così l’autore può permettersi rimandi a Rimbaud, a Thomas, senza mai incorrere nel citazionismo. La consapevolezza rende colpevoli? “Io che ho negato Cristo sulla prima barca,/finalmente ho capito il significato della parola addio”.
O addio è solo una parola: “continua ad essere preferibile dipingere occhi umani/prima delle cattedrali”.
Melania Panico
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