Claudio Damiani recensisce Il tempo dell’attesa

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da Laboratori Poesia
 
 

È un giardino apparentemente abbandonato, in realtà coltivato nel silenzio, in un’attesa che è il vivere stesso, e aprirsi al fuori, cose, animali, il paese e il paesaggio, il Monte Lifoi, i personaggi. E in tutti questi colori, in tutta questa descrittività, in questo apparente sguardo solo recettivo, passivo, si sente, sotto, il pensiero, un’interrogazione continua, un’ansia filosofica, che è, sì, in quell’Intermezzo dove si trascolora impercettibilmente dall’haiku all’aforisma (tra i momenti più alti del libro) o in quel Kant che fa capolino alla fine, “visita” che è un cammeo, ma poi in ogni parola, in ogni “oggetto”, anzi “ente”, sia esso cosa, personaggio o fatto (“fatto tra i fatti”). È il giardino della vita, “dove tutto fiorisce / e marcisce”, dove si consuma un attendere, che è anche un essere attenti, intenti, a qualcosa che trapela appena, traspare tra lo scorrere delle cose, e che Rosa chiama: “una mortale infinità” (e che è anche un affinamento): “ancora e sempre saliamo in giardino, ove i rami / riducono il loro peso come se sentissero / con le foglie / la mortale infinità”.

 

Claudio Damiani

 
 
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Il giardino dell'attesa - Rosa Salvia