Su Sandro Pecchiari – di Alessandro Canzian

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Sandro Pecchiari esce, a quasi due anni dalla prima silloge Verdi anni (Samuele Editore, prefazione di Roberto Benedetti), con una seconda opera che non tradisce e anzi continua, a guisa d’unica opera, il tracciato impresso dai suoi Verdi anni. Le svelte radici (Samuele Editore, prefazione di Mary Barbara Tolusso) persevera infatti nel percorrere un solco esistenziale che fa del sé un piccolo globulo rotante in un mondo molto ma molto più grande. Se nel primo la scansione poetica diceva un teatro della vita scomposto in atti, non necessariamente cronologici anche se a ritmo degli accadimenti privati filtrati dalla riflessione personale, non rinunciando a un’ironica quanto dolorosa introspezione psicologica e onnicomprensivamente umana, il secondo volume amplia questo teatro a latitudini e longitudini geografiche molto differenti. Ma senza rottura, o frattura, che già la vita impiega le sue nascoste energie a spezzare l’uomo nel suo cammino. In Verdi anni abbiamo infatti una Geografia di Fabrizio, un dramma che fa della perdita un momento di stasi e di sperdimento. Abbiamo poi una Geografia di Sameh che denota il desiderio non tanto di rinascere quanto di sopravvivere, laddove forse vivere non è possibile. In Le svelte radici abbiamo quindi una prosecuzione della geografia in indicazioni/annotazioni precise a margine della quasi totalità dei testi: Roma, Trieste, Grado, Bologna, Conegliano Veneto, Parenzo, Orvieto, RoshHanikra, Bet She’an, Monaco, Toronto, Winnipeg, Fort Gibraltar, Nazareth, Aquileia, Gorizia, Kenora (interessante sarebbe anche chiedere all’autore il motivo di questa successione di luoghi, che ho riproposto il più fedelmente possibile ma evitando le ripetizioni, quindi non restituendo l’effettiva sequenza di viaggi e ritorni). Una vera e propria migrazione definita anche dall’autore: E se sfiorisce la neve / si tinge di polvere seccata / e infanga di terre in migrazione / la aiuole scalzate / le scarpe le strade / sdrucite e lise che, poche pagine dopo, diventa: donami le radici dei migranti / per incidervi insieme le emozioni / di chi dipinge i canti (e non si può non notare che il secondo atto di Verdi anni si intitolava Il viandante). Radici, svelte radici, che da un concetto di migrazione che portano in sé tutta la geografia della terra, delle terre, di una pluralità vertiginosa, arrivano a sfiorare un’orazione laica: dammi radici come frecce / che fissino il dio della vertigine / e fai che risultino retrattili / quando sarò alla fine.

Nella scansione di questo secondo libro Sandro Pecchiari ripercorre quella dinamica a lui cara del passato che attraverso un percorso diventa futuro. Infatti se osserviamo i capitoli leggiamo: Un prudente distacco, De Rerum Natura, Il posto nuovo, Le svelte radici. Dove un testo fra tutti più dice le intenzioni e la ricerca dell’autore: Hai indossato per anni la tua casa / e innaffiato per anni i tuoi ricordi / e negli anni strizzato la tua vita, / hai intessuto una pesante investitura / con liturgie imbecilli ed efficienti / mentre ognuno diventava una comparsa / dentro una farsa di dura cartapesta. Anni che sono quegli stessi anni che nel libro precedente venivano così cantati: verde, certo, quello dolce degli occhi / tra le rughe, che dimentica le mani / e il tuo pulsare. / verde, forse il verde buio degli amori / resi lisi e regalati per stanchezza / a chicchessia. / verde marcio, verde bile del rifiuto, / della lotta per le spoglie (da Anni verdi).

L’impressione che si ha leggendo Sandro Pecchiari è quella di un uomo che ha sofferto e dopo un periodo di deserto ha trovato un posto nuovo, non semplice, ma anzi ancor più impegnativo dell’esilio precedente. Perchè il posto nuovo è l’altro da sé che obbliga a confrontarsi con il mondo, un mondo conosciuto per la sua assurdità, la sua crudeltà, dove l’ironia è in qualche modo lo scudo contro i colpi efferati della vita. Un posto nuovo che si trova solo percorrendo tutti i posti, migrando, perdendo il proprio io qui per accogliere la ruvida bellezza del caso. Che rende il mondo non un posto migliore, la vita non una cosa più dolce, ma sicuramente più bella nelle sue metamorfosi del rapporto mondo/sè (che non è più il sé/mondo di Verdi anni). Metamorfosi rese possibili anche perchè un posto, puntuale, resta sempre invariato e invariabile, immutato pur nella sua evoluzione: la parola. Una parola che si fa àncora nel mare, casa in terra straniera, punto d’appoggio sia nella partenza sia nell’approdo. Parola che viene trattata consciamente e inconsciamente alla stregua di un riparo, di un rifugio, di un amore che ha tutto il dolore di un qualcosa che è stato strappato, dell’esilio, del vagabondare, del ritrovarsi, dello scontro/incontro con le diversità umane e linguistiche.

Da questo le sperimentazioni poetiche e fonetiche che Sandro non di rado tenta, sopratutto verso fine libro, e che identificano e siglano l’accordo trovato con la vita, attraverso la parola. Un accordo che ne riconosce la gravità ma gli concede un’armonia anche nella casualità. Un esserci sempre, come letteralmente Sandro dice in chiusa del libro, se solo getti il tempo. Un tempo che non è solo cronologia ma si apre a ogni interpretazione possibile, ad uso e consumo del lettore che in questo libro non deve tanto cercare l’esperienza biografica dell’autore quanto le consonanze con la propria esperienza biografica, con il proprio viaggio esistenziale. Sapendo che Sei nudo, bello, solo e sei tutto finora / finalmente tuo.


Alessandro Canzian






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